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GENE WILDER, UN RICORDO

Carlo Amatetti • ago 29, 2016

Gene Wilder ci ha lasciato. Un grande attore, una sensibilità comica impareggiabile, e una persona di rara dolcezza e disponibilità. Un ricordo privato per conoscere almeno un po’ anche l’uomo dietro i baffetti del folle Dottor Frankenst…in.

Non poteva cha accadere oggi. Nel pomeriggio avevo finito di tradurre questo brano scritto da Mel Brooks , e dedicato proprio a Gene Wilder , nel suo libro di memorie sulla lavorazione di Frankenstein Junior , film scritto a quattro mani con Gene a partire da un suo soggetto:

Nessuno più di Gene è in grado di passare in rassegna gli stati d’animo dalla A alla Z, come fa nella scena in cui è rinchiuso nella cella col mostro. Lui arriva perfettamente sicuro di sé, “Non importa quello che sentirete, non importa se io vi chiamo e vi prego, non importa se mi metterò a gridare in modo terribile, voi non aprirete questa porta!” Perfettamente padrone di sé, deciso. Poi entra in punta di piedi nella cella, e quando il mostro rompe le catene, è un tutt’uno passare dai panni di un dottore assertivo a quelli di un micetto terrorizzato. Che gamma emotiva! Dalla sicurezza e il pieno controllo di sé al bambino che urla per aver salva la pelle. Gene ha reso in quella scena il doppio di quanto avrebbe potuto fare chiunque altro. Nessuno ci sarebbe riuscito! La sua recitazione, la sua veste da camera, i suoi baffi perfetti, la sua perfetta e lucente chioma, tutto evocava alla perfezione gli idoli delle matinée degli anni Trenta. Non si è mai preoccupato minimamente di essere affascinante, lui voleva solo essere “nel” personaggio. [ Frankenstein Junior: memorie dal set e altre quisquilie , Sagoma Editore, in uscita il 3 novembre 2016; riproduzione riservata].

Ma dell’attore Gene Wilder in questi giorni potrete leggere e ascoltare tutto ovunque. Per questo nelle righe che seguono voglio provare a parlarvi della persona che ho avuto la fortuna e il privilegio di incontrare e di cui sono diventato l’editore italiano e – mi piace pensare – un amico negli ultimi sei anni della sua vita.

Dicembre 2009, adorante verso il mio autore di punta… Anzi, all’epoca il mio primo autore in assoluto…

La prima volta che ho visto Gene è stata nella hall di un albergo di Stamford, Connecticut. Lo scorgo dall’alto, mentre scendo dalla mia stanza. Un omino esile che si aggira per la hall guardandosi in giro con fare leggermente indeciso e curioso allo stesso tempo. Che fosse Gene, era evidente. Nonostante i lustri, i suoi boccoli indomabili sono ancora tutti lì, inconfondibili, una sfida sfrontata all’età e alla fisica, un firma folle di un’esistenza da sempre votata – usando le sue parole – all’arte e all’amore. È venuto a prendere me e il mio compagno di viaggio, il comico Omar Fantini , per portarci a cena. Fuori ci aspetta, col motore acceso, la moglie Karen . Mentre vivo quel momento, il mio cervello non riesce a trattenersi dal descrivermelo dall’esterno, quasi a volerlo incidere più profondamente nella memoria, per non perderne neppure un istante: “sono qui e Gene Wilder mi è venuto a prendere con sua moglie per portarmi al ristorante…”. Siamo sotto Natale, Stamford offre ben poco, se non un freddo polare e il mall più grande d’America. E, appena fuori città, distese di boschi alla cui ombra riposa anche la splendida casa che Gilda Radner ha lasciato in eredità a Gene alla sua morte, appena cinque anni dopo il loro matrimonio. Una casa antica quanto l’America, dai pavimenti in legno e dai soffitti bassi.

Stamford offre, però, anche un piccolo ristorantino tenuto da italiani, che accolgono Gene con affetto, evidentemente cliente di lunga data. Prima di sederci al nostro tavolo, un gruppo di ragazzi lo chiama al proprio tavolo e lui non si fa pregare. Rimane con loro una decina di minuti, ricambiando il loro affetto con sorrisi gentili e qualche aneddoto. Poi ci raggiunge. Sono talmente tante le cose che vorremmo chiedergli che finiamo per non chiedergliene quasi nessuna. Ma gli aneddoti saltano fuori lo stesso, sgorgano con naturalezza mentre è lui che chiede a noi delle nostre vite. È lui che vuole saperne più di noi. E non del motivo della nostra visita – che è poi la promozione della sua autobiografia che di lì a qualche mese avrei pubblicato anche in Italia – ma proprio di noi, delle nostre famiglie, dei nostri sentimenti. E quasi a ricambiare le nostre confidenze, lui ci parla di Marty, “un angelo, l’uomo più gentile e caro che abbia mai conosciuto” , e di Mel, dell’amico Alan Alda, di Gilda, e soprattutto di Karen, lì presente con noi. L’amore per la moglie è quello che ci colpisce di più: quello di un adolescente per la sua bella. Una bella da coccolare e stringere ogni giorno, perché non c’è giornata più bella di quella passata a scrivere alcune pagine di un nuovo libro, poi alzarsi, stiracchiarsi e andare in salotto a dare un bacio alla sua Karen. Una routine che sembra averlo appagato totalmente in tutti questi anni in cui è stato lontano dai riflettori: “Tecnicamente non mi sono ritirato. È che semplicemente non mi hanno più offerto una parte che sentivo adatta” . Non una parte in vent’anni, per la precisione. Quando si dice essere selettivi… Ma del resto la sua idea di cinema è molto precisa, e ben poco transige al riguardo: “Io e Karen vediamo tantissimi film insieme, soprattutto qui a casa (peraltro, in quanto “nominato” agli Oscar, fa parte dell’Academy, e quindi vede e vota da 40 anni i film “candidati”). Ormai sono pochi i film che non superano le due ore, quando è chiaro che se dalla sala di montaggio esce un film più lungo di 90’ è evidente che il regista ha perso il controllo del progetto” . Un concetto che forse potrebbe spiegare più di qualsiasi fantasioso retroscena il suo rifiuto a partecipare al progetto di Steven Spielberg .

Come ho scritto, eravamo sotto Natale, e anche se sapevo che era ebreo, pensavo fosse “americanamente” opportuno, comunque, portare a lui e alla moglie un piccolo cadeau natalizio. Ma che fare come regalo a Gene Wilder? Cosa si regala a una grande star del cinema? O anche a una piccola, se per questo… Nell’incertezza più totale, me ne vengo fuori con un’intuizione bislacca: una coppa dell’amicizia valdostana. Per chi non sapesse cosa sia, è un recipiente di legno con coperchio e vari beccucci che solitamente viene usata tra amici o parenti che, appunto, la condividono bevendo dai beccucci una bevanda a base di caffè e grappa, che ovviamente ci siamo portati dietro dall’Italia, nascosti in valigia tra camicie e mutande. Fortunatamente il locale è tenuto da italiani “veri” che non si fanno pregare e preparano al meglio il caffè “alla valdostana”. Il giro di grolla con Gene, Karen e Omar ha chiuso una serata magnifica, e ha dato vita a un’amicizia che sei anni e quattro libri hanno ulteriormente cementato e che di certo non sarà qualcosa di banale come la morte a poter rompere.

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